venerdì 22 febbraio 2013

Il fantasma triste

di Alessandro Magnifici


«Sei l’unica parola che voglio pronunciare.»
Alex scrisse questa frase sul finestrino del treno, di getto, sorridendo.
La gelida e piovosa giornata che era piombata sulla città all’improvviso, nella notte, aveva creato una patina di umidità che solleticava la fantasia di avventori poeti metropolitani. Infatti, i vetri del trenino di quella mattinata uggiosa, erano diventati fogli immaginari su cui scrivere i propri pensieri; bisognava essere armati solo di un dito e qualche motivo per devastare la patina umida e uniforme creata dalla pioggia, creando delle lacrime naturali, che andavano a morire contro i bordi dello stesso.
Alex era seduto immobile sul suo posto, in giacca e camicia bianca. Era salito alla prima fermata e aveva visto pian piano il vagone riempirsi. I suoi occhi scrutarono i volti assonnati di quella strana mattinata. Gli arrivarono addosso l’odore del sudore e il profumo di caffè appena bevuto ai bar della stazione, i più indecenti e scarsi della città. Due file dietro Alex, c’era una ragazza che stava disegnando due cuori traballanti - a causa dei movimenti bruschi del treno - con due lettere al loro interno. Avrà avuto sedici anni al massimo.
Alex accarezzò con i propri occhi, i pensieri di quell’adolescente. Il risultato del “capolavoro” della ragazza era realmente orribile, ma lei, una volta finito il disegno, se lo cominciò a guardare con ammirazione, fino a quando la strada solcata dalle dita cominciò nuovamente ad appannarsi. In breve tempo dei due cuori rimase solo un semplice ricordo. Solo allora, la ragazza cominciò a mordersi il labbro nervosamente, a sbattere le palpebre degli occhi velocemente. Il naso cominciò a colare senza freni: un pianto violento la colse di sorpresa tra tanta gente. Le lacrime si mescolarono alla brina del finestrino. Accanto a lei, in piedi, c’erano tre albanesi già sporchi di calce e fatica, ancor prima di iniziare a lavorare. Guardarono la ragazza prima sorridendo e poi con emozione. Alex fece per alzarsi, ma poi decise che quell’attimo di dolore doveva essere spartito solo tra la ragazza e la pioggia, che entrava da fuori tramite una piccola fessura del finestrino.



Accanto ai tre albanesi c’era un ragazzo con la borsa sulla spalla sinistra. Li ascoltava incuriosito, non capendo assolutamente nulla. La loro lingua era veloce e incomprensibile; allora si abbassò un po’ e cominciò anche lui ha fantasticare sul vetro appannato, colmo di piccoli aghi di pioggia. Lo sguardo tentò di andare oltre ciò che aveva davanti. Cercò in questo modo di andare oltre le apparenze e le sottili consistenze. Ne fece quasi una guerra personale. Il suo tentativo gli ricordò un film che aveva visto due sere prima con la sua ragazza: Matrix. C’era una scena in cui l’attore principale, Neo, guardava estasiato un lavavetri, che lentamente liberava la vista del protagonista, su un mondo a lui sconosciuto. Quel pensiero profondo, trasformarono i rimproveri del capo, il ritardo di quel giorno al lavoro, in qualcosa di totalmente inutile e stupido. Per Neo c’era solo la volontà di vedere realmente ciò che era la realtà. Era la stessa guerra del ragazzo con la borsa a tracolla. «Che cazzo non può essere tutto qui!» esclamò guardandosi intorno e vedendo la miseria che lo attanagliava in maniera sottile e indelicata. Allora tornò a guardare fuori, attraverso un vetro appannato e ad immaginarsi la vita che desiderava. Era la stessa guerra che un tempo aveva combattuto anche Alex.  Era difficile spiegarlo a parole, ma anche lui aveva vissuto la gran parte della sua vita con la netta sensazione che gli avessero messo un palcoscenico davanti agli occhi, solo per non farlo vivere realmente. Quella sensazione scompariva solo quando guardava negli occhi la propria ragazza. Solo allora si sentiva appagato dalla pochezza della realtà che respirava. Alex si girò emozionato.
La scritta Sei l’unica parola che voglio pronunciare si appannò davanti ai suoi occhi, davanti al lago di ricordi che si stava creando.
Alex poi guardò il ragazzo con la borsa a tracolla sorridendo, intuendo i suoi pensieri e la sua battaglia di cinque minuti. Si, perché poi la vita inevitabilmente si sarebbe ripresa la sua fetta di spazio, fatto di lavoro, frenesia, falsi progetti e false speranze.
Alex poi guardò la persona che aveva davanti a sé. «Che brutto vedere un uomo che non ti trasmette nulla», sussurrò tra sé e sé, cercando di non farsi sentire. Il personaggio innanzi a lui era il tipico uomo comune, ingrassato enormemente negli ultimi anni, pelato ma con i capelli folti al lato, il viso tondo e gli occhi buttati lì, a casaccio. Vuoti. Come se quel giorno Dio, fosse stato veramente stanco del genere umano. Due colpi di tosse fecero risalire d’improvviso Alex dai cattivi pensieri che stava facendo. Si sentì una merda ad aver concepito quelle cose così cattive e crudeli.
«Amico mio, scusa» esclamò sorridendo. L’uomo sbarrò gli occhi, si guardò in giro cercando di capire chi fosse stato a pronunciare quelle parole, poi tornò a leggere il giornale alla pagina sportiva, ma dal movimento degli occhi, si capiva che era così distratto da non leggere neanche una riga.
«Ma lei ha sentito qualcuno?» chiese l’uomo comune alla ragazza accanto a lui. Lei lo guardò con sufficienza, intuendo erroneamente che volesse attaccare bottone e non gli rispose. Anzi, con delicatezza aprì la borsetta, prese il suo mp3 e si tuffò nella musica a lei cara. Alex guardò estasiato quell’angelo molto umano. Aveva i capelli raccolti per combattere il caldo, la postura eretta, il viso fiero. Si sentì invadente e incuriosito allo stesso tempo. Guardò le sue mani, lunghe e affusolate, i fili dell’mp3 che finivano nelle orecchie di quella creatura. Una meravigliosa musica metal uscì delicatamente dalle cuffiette. Era l’unica donna che aveva scelto di salvarsi nella maniera giusta, pensò Alex distogliendo lo sguardo dalla ragazza.
«Biglietto, prego!». Il controllore si fece spazio tra la folla a fatica.
«E’ possibile che ogni mattina sia la stessa storia!» urlò una donna visibilmente adirata. Il macchinista non rispose.
«Tanto signò che vuole fare. Questi basta che magnano!»
«Dovremmo scendere in piazza. Ci fanno viaggiare come bestie! Qui ci vorrebbe la rivoluzione. Altro che Brigate Rosse.»
Alex sorrise nel sentire i propositi rivoluzionari delle 7:15.
«Biglietto, prego!» Il controllore si collocò accanto a lui. L’uomo grosso e pelato fece vedere il suo abbonamento, seguito dalla ragazza con le cuffiette e dalla signora accanto a lui.
Il controllore poi guardò al posto occupato da Alex per due secondi, poi esclamò «La gente si lamenta che viaggia male, e poi ci sono dei posti vuoti!» Il cuore di Alex si bloccò di colpo. Il controllore passò oltre. Alex si alzò terrorizzato, si toccò il petto e le braccia, senza sentire nessuna consistenza. Sbrinò il vetro davanti a lui e quello che vide era solo un paesaggio in movimento in una giornata uggiosa. La sua scritta era scomparsa, anzi non era mai esistita. Entrò nel bagno del treno, insolitamente libero, e si specchiò o almeno tentò di farlo, ma Alex scoprì con terrore che non era neanche un riflesso.
Passò tra la gente fino a quando una voce meccanica imperversò tra i vagoni indicando la prossima fermata: «Stazione Tuscolana. Prossima fermata Tiburtina». Era la sua fermata.
Alex scese di fretta e si trovò subito davanti ad una lapide. Era grande, rettangolare e con dei fiori vecchi e secchi in basso. Le sette righe narravano l’ultimo scampolo di vita di quel ragazzo che proprio in quel pezzo di asfalto, quasi quarant’anni prima, era stato ammazzo da due uomini del fronte politico opposto. I genitori, la fidanzata e gli amici, avevano voluto quella lapide per non scordare mai quel ragazzo morto in una domenica d’inverno. Per non dimenticare mai Alex.

Qualcuno narra ancora oggi di vedere il fantasma di Alex in giro nella stazione e sui vagoni di quella tratta metropolitana.

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