giovedì 19 luglio 2012

Dio non ama questo posto

di Alessandro Magnifici


«Mi sta chiamando il cielo. Mi sta chiamando Dio, vuole maledirmi anche lui.»
Mio nonno morì sussurrando queste parole, mentre stringeva la mano della sua donna - mia nonna - con una forza incredibile.
La camera era illuminata da piccole e deboli fiammelle gialle danzanti.
Era appena pomeriggio, ma fuori era già buio pesto e l'oscurità aveva portato con sé raffiche di vento e di neve, che si erano fatte sempre più insistenti e violente. I vetri erano quasi completamente coperti da un folto manto bianco; le ante di legno sbattevano violentemente contro il muro, ma nessuno aveva voglia di bloccarle. Il loro rumore continuo dava una certa aria sinistra alla casa come se, qualche forza a noi sconosciuta, volesse entrare.
Per fortuna, il piccolo assembramento di persone che si era radunato intorno al letto, recava un po’ di sicurezza alle mie paure.
Le ombre dei miei genitori ondeggiavano come spettri sui muri. Danzavano sulle pareti seguendo il ritmo delle piccole fiammelle accese. L’odore di cera sprigionato dalle candele nella stanza era forte: era così forte, quasi nauseabondo, da rendere l’aria estremamente dolciastra.
A completare il quadro di quello strano gruppo di persone c’era mio nonno appena morto.  La stanza sembrava avere già nostalgia di lui, come noi del resto. L’aria era ancora pregna dei suoi movimenti, della sua voce, della sua voglia di lottare.
Mio padre allungò la sua mano callosa sul mio viso e accarezzò i miei capelli lisci e neri, mentre io guardavo un uomo disteso sul letto. Il primo morto della mia vita. Il sonno eterno sembrava averlo colto di sorpresa, in un giorno normale. All'improvviso qualcosa si era spezzato nella regolarità di una giornata come tante altre; forse la morte non era altro che questo, pensai.
Mio nonno aveva incominciato a invecchiare all’improvviso, i capelli erano diventati subito bianchi e in meno di una settimana la sua vita era finita, in un freddo pomeriggio di fine settembre.
«Tuo nonno dorme. Ora è andato in un posto migliore di questo. Lo vedi? Sta sorridendo. Forse è stato più fortunato di tutti noi. Non vedrà più davanti agli occhi tutto questo schifo!»
Mio padre aveva anche lui un tempo dei bei capelli neri. Il suo volto era grande e rassicurante, la barba dura, appena accennata su tutto il viso, era una presenza onnipresente. Quel giorno indossava una camicia gialla abbottonata fino al collo. Era lì con noi in licenza, per troppo poco.
«Ti riferisci alla guerra quando parli di schifo?», gli chiesi con la speranza e l’incertezza dei miei diciassette anni. Eravamo alla fine del 1915 e c’era la guerra, e la mia età era più che una condanna. Da lì a qualche mese sarei stato chiamato alle armi anch'io, ma la cosa non mi dispiaceva, anzi! Ero felice di andare a combattere accanto a mio padre, e ne ero così convinto che avevo chiesto di partire per il fronte come volontario. Ma dovevo ancora aspettare.
«Non pensavo solo alla guerra, parlavo della vita, anzi, di quella cosa che ci scorre tra le mani giorno dopo giorno, e che ci lascia sempre un grande senso d’impotenza».
«Tuo nonno è morto e basta! Non c’entra nulla la guerra! Non è in nessun maledetto paradiso o inferno, qual si voglia!», urlò mia nonna interrompendoci, mentre si sistemava rabbiosa lo scialle verde fatto a uncinetto da lei stessa.
Sembrava mi avesse letto nel pensiero. Stavo, infatti, immaginando come fosse la vita dopo la morte: avevo sempre creduto che, dopo questa esistenza, ci aspettasse un immenso spazio vuoto e buio. Immaginavo le persone defunte cercare di andare verso la luce, ma molte di esse rimanevano senza vita su qualcosa che assomigliava a un filo spinato; quante volte mio padre mi aveva parlato di questo infernale strumento di difesa.
Ebbene, quelle povere anime non andavano da nessuna parte e allora morivano due volte, diventando fantasmi e rimanendo tra noi. Ecco la mia stravagante idea della vita dopo la morte.
Mia madre prese mia nonna subito da parte e la portò fuori, abbracciandola con forza, mentre lei bestemmiava ancora tra i denti.
«L’ha fatto morire di crepacuore», disse sottovoce mio padre. Poi mi guardò e mi sorrise imbarazzato.
«Ora bisogna preparare il funerale e imbandire la tavola. Comincerà ad arrivare gente a portare cose da mangiare. Aiuta tua madre, stai accanto a lei. Se io rimango ancora cinque minuti con tua nonna in questa casa, i funerali saranno due.»
«Rimarrei l’unico uomo della famiglia!», risposi sorridendo mentre vedevo gli occhi di mio padre farsi sempre più rossi, fino a diventare del colore delle lacrime. Quell’uomo che giaceva sul letto privo di vita era suo padre in fin dei conti.
Era stato un giornalista coraggioso e originale. Fu uno dei più giovani e intraprendenti cronisti de la “Nazione” nel 1860, a Firenze.  I miei ricordi su di lui, pochi per la verità, erano sempre legati a un foglio e a un calamaio. In quel momento, invece, giaceva davanti a me, sempre più bianco, con la bocca spalancata mentre rivoli di saliva gli uscivano in continuazione dall’angolo delle labbra, bagnando il cuscino. Mio padre gliela chiuse dolcemente e coprì il viso con un fazzoletto bianco.
Ora sì! E’ morto, pensai.
Ci spostammo per uscire dalla stanza. Il nostro brusco movimento fece sobbalzare la fiamma delle candele che per un attimo si ribellarono, quasi spegnendosi. La stanza per una frazione di tempo fu illuminata solo dalla luna, che andò a riflettersi sul grande armadio a specchi, creando un’atmosfera surreale. Le ombre sui muri scomparvero solo per pochi secondi, poi le fiammelle tornarono ondeggianti a proiettare la propria luce sui muri e sui nostri visi.
Il freddo e il buio delle altre camere adiacenti fecero fermare i miei passi incerti, almeno fino a quando mio padre non mi afferrò la mano.
Lo guardai rassicurato.
Eccezion fatta per la stanza dove il corpo di mio nonno giaceva, le altre erano avvolte dal buio più completo.
«Aspettami qui. Vado a prendere una candela. Tuo nonno non ne ha più bisogno», disse mio padre intuendo i miei pensieri.
«Va bene!»
«Altrimenti con questo buio c’è la possibilità di rompersi l’osso del collo su quelle scale», mi disse alzando la voce scherzosamente.
«C’è ancora molto spazio sul letto, papà», risposi ridendo divertito e intuendo che non piangeva più.
Rimasi nuovamente al buio completo per alcuni secondi. Il freddo mi afferrò le gambe e le mani. Guardai con timore le scale al piano di sopra, il terzo. Lì erano accatastati i vecchi mobili e tutte le cose che non usavamo più. Era un posto dove io non ero mai salito.
Lentamente un chiarore giallastro si mosse e si avvicinò a me.
«Andiamo!», disse mio padre con un filo di voce, nuovamente scosso ed emozionato.
Ci avvicinammo alla prima rampa di scale che portava al piano inferiore quando a un tratto sentimmo un boato. L’intero piano superiore fu illuminato per alcuni secondi, la candela cadde rotolando giù per le scale spegnendosi.
Un bagliore accecante entrò dalla finestra. Poi tanti altri.
Mio padre riprese fiato dallo spavento e mi strinse tra le braccia. «Stanno attaccando! Non ti preoccupare, qui siamo al sicuro.»
«Il posto dove stanno combattendo è lontano, lo so. Allora perché riusciamo a sentire tutto?», domandai.
Lui non rispose. Guardò verso le montagne, fuori dalla finestra, e vide la notte violentata da esplosioni, lampi di fuoco e cumuli di terra che salivano nel cielo. Era lì che volevo andare anch’io.
La voce di mia madre allarmata interruppe i riflessi dell’orrore e della paura che a nostra insaputa si erano stampati sulle nostre pupille.
«Andiamo, tua madre e tua nonna saranno impaurite.», incitò mio padre.  
All’improvviso un urlo privo di umanità proveniente dalla camera in cui giaceva mio nonno ci raggiunse.
Gridai impaurito mentre mio padre si mise a correre verso la stanza.
Io invece scesi le scale al buio, cadendo più di una volta.
«Che sta succedendo? Il diavolo è in questa casa!», urlò mia nonna, piangendo impaurita.
La mia corsa folle fu frenata dalle braccia di mia madre che mi portò fuori di casa, al freddo e al gelo, ma anche al sicuro. Mia nonna ci raggiunse qualche secondo dopo.
Fuori la luna piena mostrava anche i lineamenti delle pietre. Alzammo la testa e vedemmo l’ombra di mio padre disegnarsi sulle tende, grazie alle poche candele rimaste accese nella stanza mortuaria.
Andava avanti e indietro nervosamente e sembrava parlare con qualcuno. In lontananza i boati delle montagne incorniciavano ancor più di terrore quella strana sera.
La luce al piano superiore all’improvviso svanì. Rimasi interdetto.
Mia madre si gettò all’interno della casa lasciandomi la mano gelata e ne uscì dopo alcuni secondi con mio padre sottobraccio. Non potrò mai scordare il volto di mio padre quando uscì dal buio della casa.

5 commenti:

  1. Bello!!! Mi piacerebbe sapere come continua...cosa è successo al padre????? :)

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    1. Ciao, sono l'autore. Grazie. E' l'incipit di un romanzo più grande che sto scrivendo. Grazie ancora. Ale

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  2. Mi auguro di poter trovare il tuo romanzo presto in libreria allora, perchè l'incipit promette bene!!! In bocca al lupo!

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    1. Grazie di cuore! Sai...da libraio conosco bene il mercato dei libri...e so quanto è difficile pubblicare....ma non mollo...alzi! Grazie ancora

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  3. Bravi e bravo Alessandro, è questo lo spirito giusto ed è questo lo scopo di Cronache dell'Insolito: conoscere e farsi conoscere.

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